Caro amico ti scrivo così mi distraggo nantro po.

La gente non cha più la faccia.
E’ il 2035 dopo cristo, e le persone non hanno più un viso.
Al suo posto una smart-face, una sorta di schermo ergonomico a cristalli liquidi che proietta immagini.
Il corpo ‘nconta ‘ncazzo invece, presente i reggi cellulari nostri? Eh, na cosa del genere, serve solo come sostegno de sta smart-face.
Ovviamente è un oggetto che si può spersonalizzare a piacimento.
Dici, e come fanno? Come faccio a capì co chi cazzo sto a parla?
Facile, ‘nse parla più. Non serve più, mo se comunica, ‘nse parla. E’ nantra cosa.
L’identità come concetto, se né annata pe i cazzi sua seguendo alte strade.
Le persone vengono riconosciute ed identificate attraverso il dna, con degli scanner posizionati ovunque, per legge, tipo telecamere.
Stanno tutti ammassati in un unica magalopoli con 5 miliardi di persone. Tutti insieme, un ammasso di smart-face che se ne vanno in giro, perché i visi delle persone come t’ho appena finito de dì, non esistono più.
Capito come? Tu le guardi, e niente, ‘nce stanno più. Ti dico, un flash.
Ce sta ‘n software…
Quarche vecchio, vecchia, so l’unici che anocora vedi ogni tanto con indosso la faccia del modello nostro.
Perché bada bene, mica che è reato annassene in giro con la faccia vecchio modello. Sia chiaro.
La cosa singolare che ho capito chiedendo un po in giro, infatti, è che non c’e stato bisogno di nessuna legge per ordinare ai 5 miliardi di persone di barattare i propri lineamenti co ste smart-face.
Anzi, afferisce in modo totale a ciò che pure noi chiamiamo scelta; un acquisto.
Inffatti ha un costo, seppur abbordabile a tutti, ma non è aggratis, per questo vedi i vecchi senza, perché i vecchi pure sel nel 2035 so sempre i soliti vecchi purciari, restii a spenne sordi pe le stronzate.
Comunque, me pare de capì che i reati non esitono più. Non c’è bisogno perché tutti so buoni, non so come noi, capito?
La gente magna cubetti, caca cubetti, beve concentrati, piscia concentrati, dice che ‘nc’hanno tempo pe magnà come mognavamo noi, cor gusto, e pe lo stesso motivo comunicano in 140 caratteri…’nchanno tempo, dicono, ma la cosa più incredibile è che se capischeno.
Ho chiesto in giro perché proprio in 140 caratteri, ma ‘nmanno saputo risponne.
Anzi, me so sembrati pure parecchio risentiti solo che j’avessi fatto sta domanda. Come fossi stato scostumato.
Poi ho capito che il perché e ed il percome delle cose ha perso appeal nel 2035. Nun va più de moda, stanno avanti.
Pe fatte capì, il ricordo, la memoria, so cose tipo oggetti vintage. In altre parole la classiche cose che non servono più ancazzo. Come fosse che ne so il vic20 nel 2014. la memoria viè considerata come n’Hardidisk esterno conservato tra la polvere de qualche smanettone nerd nostalgico. E’ no strumento obsoleto, er monno gira su Ram, è tutto streaming, è tutto mò, un mò dilatato cor forcipe tipo, cazzo ce fai co la memoria.

Ao, presente le caccole?
Non esistono più.
Scomparse pure loro nel mondo del sommerso e dell’ invisibile, del “dietro”, come le rughe, come i capelli, come il colore della pelle.
Presente il razzismo? Niente, non esiste manco più quello.
E’‘nprobblema che‘nc’hanno più, tipo il colera pe noi. (e ‘nce stanno manco più i napoletani…..e pensa, la squalifica del campo te la danno nel caso in cui, pe tifà la squadra tua, superi i 140 caratteri).
Sul razzsimo hanno fatto sto ragionamento; invece che eliminare la paura, eliminamo l’altro.
D’altronde la paura va fortissimo. Io li ho cioccati bene, questi c’hanno paura de tutto, parono coniji bagnati, ma la cosa che je fa paura più de tutte, è la solitudine, come i sorci.
…Dici, sempre roditori so. E c’hai ragione pure te.
Comunque, nte pare strano?! Dici, ma come? Porcoddio annate in giro senza faccia, e c’avete paura della solitudine?
Dici, ma come, manco ve parlate più, ve mannate i link, comunicate in 140 caratteri e c’avete paura della solitudine?
Approposito, il mondo pare un immenso sexy-shop, e la gente scopa tra sconosciuti, nei posti più impensabili.
Dici, ma nbase a che scopa se manco se vedono…?
Da quello che ho capito scopano in base a quello che vedono di loro stessi, presente quer faggiano de narciso che afforza de specchiasse nell’acqua cè morto affogato?
Beh, questi so morti scopati.
Ma occhio, è scopà diverso, che sennò poi te confonni.
Tipo che scopano coll’occhi. Nso spiegatte bene.
Na vorta ho visto due che senza faccia se ne stavano seduti uno di fronte all’antro, colla faccia spenta, cioè off, senza, capito? tipo in standby..
Al che, ‘ncurisito, chiesi ad un passante, “ma che stanno a fa quei du scemi?”
“chiamali scemi…”
Al che capii che stavano tipo a scopà, che poi è tipo quello che pe noi è chattà in pvt. Se mannano le immagini de loro mentre scopano, o na cosa del genere.
Comunque, io m’aspettavo de trovà chissà quali cambiamenti, quali conquiste, tipo i firm colle maghine che voleno, tipo blade runner, presente no?
Invece al di là di questo che ti sto scrivendo nun me pare che chissà cazzo è successo.
Me pare più o meno uguale, il capitale non sé fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno, è un ossimoro regna incontrastato, lo schiavismo volontario.
Te lo ricordi l’amico nostro quella volta che tornato da na festa peggio de come c’era annato ce roccontò che “ao ieri sera a na certa ho paccato co una…..co uno……boh, ma che nesò che era, comunque era na persona eh, perchè non è che me so paccato da solo…” ma lo colse il dubbio ferale?
Ecco. Questi nc’hanno più il dubbio, questi l’hanno fatto diventà certezza. Se so levati la sete cor presciutto. Infatti so felici.

gli immortali

Tutte le storie hanno una fine. Tranne questa e poche altre.
Perchè la fine è importante daltronde.
La fine sancisce la fine, che è presto detto. Non a caso solo dopo una fine può esserci un nuovo inzio e viceversa.
Le eccezioni sono assai rare, e dolorose.
Le eccezioni eccellono in spensieratezza desiderata che collassa continuamente come una torta che non cresce che si brucia rimanendo cruda e mai pronta.
Ma cosa ne sappiamo noi dopotutto per stare qui a sindacare, per dire cosa sia giusto e cosa falso, dopotutto siamo senza battesimo, senza acqua santa e quel pianto di un bimbo, siamo nel limbo, anticamera dell’inferno.
fosse per me lo sai che farei accollerei tutti i cazzi miei ad un povero stronzo, mi sparerei tutta la robba del mondo in un giorno, mi lascerei andare giu nel fondo in un secondo.
E invece no. Uno come me non ha un motivo. Il perché ho smesso di chiedermelo da tempo, uno come me dice “manco lo voglio” uno come me amava così tanto che odiava tutto ciò che andava storto, e andava tutto storto, fu così che ripiegai, innamorandomi del brutto.
La presa ammale quando ti assale come un mostro, come un verme si infila sotto le unghie e risale sottopelle, risale fino al polmone, lo occupa, respira e cresce mentre tu vivi nell’apnea di un enfisema.
Una tenia che inghiotte tutte le cose buone e caga rancore, malinconia che diventa inconsolabile amore, solitudine, senso di colpa, la voglia di essere e fare che si tramuta in sosta ansiosa, voglia di scomparire, di ricominciare tutto da capo, urlare “io esisto”, non vedere piu se non il doppio,  non sentire più un cazzo se non lo stridulo fischio che precede il botto, e il lunotto sopra il cruscotto sopra sta custodia de sto cd rotto l’unica prospettiva che riconosco.
Tu non sai quanto mi pagherei per essere lasciato in pace.
Ahahahah, che pace? Tu non sapresti viverci in pace. Ti annoieresti.
E rido, certo che rido, si, volendo il più possibile, come no scemo, all infinito finchè le mascelle non mi si fratturano ed il cranio spazientito singhiotte occhi e occhiaie con tutte le orbite e tutto lo schifo che faccio e che vedo, rido, si, non so fare nientaltro.
Ogni giorno che passa diventa più grande, un incubo ricorrente che diventa assillante, e tu sempre più forte lo combatti, duro, inspessito come le nocche di un vecchio pugile suonato.
Essi che c’ho paura.
Tu non sai quanta. Non svegliarmi la mattina e morire solo come un cane in un giorno qualunque come chiunque in una città troppo piena e indaffarata per accorgersene. Faccia spenta tra la bava dell’ ennesima serata annata a male in cui alla domanda “che fare”, non hai saputo dare una risposta migliore che non pensare brucia corri veloce e non pensare brucia brucia bruciaaa!
Non voglio che finisca, vorrei vivere per sempre fossanche ogni giorno come il giorno più demmerda che ho vissuto, perchè quanno mori la gente a cui hai voluto bene e viceversa, piagne, ma poi deve annà avanti pefforza e per farlo, per forza te se dimentica.
Quindi si, questa storia è la storia allegra di chi vivrà per sempre, cancellata la parola fine dal proprio racconto, nessuna ultima pagina, ne ultima chance, fedeli della Religione della reversibiltà che diventa boomerang in cui non esiste più età, non esistono impedimenti di nessun tipo ne genere, in cui fai solo quello che vuoi, finchè te lo prometto, non apprezzerai più quello che fai perché non sai più quello che vuoi e ti odi.
Perdersi non è un problema, anzi, lo è solo se hai degli obblighi, legami, aspettative da assecondare, tragitti da fare, impegni da rispettare.
Per me, per noi, non è così. No. Visto che noi supereroi immortali abbiamo il superpotere di bruciare senza consumare la miccia, visto che già lo sai, domani è come oggi, oggi come ieri, visto che noi potremo vivere per sempre e morire mai, qualsiasi cosa succeda non toccherà mai a noi.

Er complesso d’Erico

“ma che ciai paura?”
“avoja mica so scemo”
“ma pauradeche? de fatte male?”
“eh no de sstocazzo… certo che de famme male. mica me ce diverto a famme male. Io quelli la i sodomadocomesechiameno nun li ho mai capiti. già la vita è na sofferenza continua, tipo quee squadre come er chievo che ogni anno se devono sarvà e nun ciai manco er pubblico che li sostiene”.
“vabbè maddai falla finita ma che sarà mai”
“aò senti eh colla vita tua ce fai quello che te pare mentre io faccio quello che me pare co quella mia”
“ok scusa nun te volevo mica fa ncazzà o fa er moralista. ma del resto nun se dice chi ama brucia?”
“ancora co ste stronzate. chi ama brucia, chi nun viè amato se brucia, chi ama troppo se scotta etc etc etc come la metti la metti te bruci e poi piagni”
“vabbè oh allora che cazzo voi fa”
“ma che ne so che vojo fa e poi si ciavessi nidea ma te pare che taa direi a te?”
“sei bravo sei bellamico”
“no ma nulla pià sur personale è che famme pisicanalizzà me risurta difficile zì. niente de personale ma io su sta cosa de dottori della capoccia ciò sempre avuto na diffidenza che nun te dico. parlano strano, fanno riferimenti a mi madre e uno che nun conosco e che me sa che s’è fatto mi madre: un tale erico o edipo. ma che nome è edipo dai. ma de ndo sei?”
“nun me pare un nome rumeno”
“manco cinese boh”
“ma nun ce pensà tanto tu madre è vedova magara je fa bene”
“massì ero solo geloso”
“vabbè e quindi che voi fa?”
“ma che ne so che vojo fa. vorei sparì, cambia nome e vita oppure giocamme l’ultimo cannoncino come se faceva na vorta in bisca. too ricordi?”
“bei tempi quelli. nun magnavamo, nun ciavevamo na lira ma manco cazzi per culo”
“vabbè ma ormai ce semo e tocca stacce in mezzo a st’onda, come fanno quelli ar mare. che poi quelli che fanno serfe a focene me mettono na tristezza che lèvate proprio”
“è arivato er fenomeno”
“no maddechè era solo pè dì che sì me vorei da ma poi ce penso bene e me dico che mica ciò ndo annà. quindi me sa che tocca rimanè sur pezzo e affrontà sto mostro. l’ultimo quadro”
“l’ultimo quadro è pè chi more”
“no quello è la voi l’ultima”
“vabbè se semo capiti”
“nsomma”
“stai sempre a questionà come cazzo vivi male”
“è che mò me sento confuso io. m’hai squilibbrato”
“ioche? ma davero pensavi de esse uno equilibbrato?”
“beh insomma più de te sì”
“ber paragone proprio. mò però senza mette er cortello nella piaga te ricordo che chi sta impicciato sei te mica io”
“aricordamelo sa. bell’amico”
“aricominci?”
“no no ma sei te prima che te lamentavi che ero namico de merda”
“li amici se scergono e noi semo scerti forse perché semo du merde”
“me sa che ciai raggione”
“me sa de sì”
“annamose a fa na bira va che ai cazzi tui ce pensi domani”
“dici che domani va bene? posso rimannà?”
“nun è che poi, devi rimannà. pè na vorta famo che so le tribolazioni che ce corono dietro e non loro dietro a noi che semio pure stanchi. se semio rotti er cazzo de tutto. semo… come se dice… semo insoddisfatti. ecco”
“vabbè comunque pago io. ho deciso. io me butto”
“de sotto?”
“nun fa lo stronzo mammamia pè na vorta che so serio. me butto ner senso che stavolta me butto dentro a sta cambogia emotiva che ciò dentro. me ce tuffo dietro senza maschera e boccajo. poi oh si affogo affogo. ma me raccomanno eh ar funerale con la sciarpa della roma”
“ovvio ma tanto te de core nun se more. er dolore serve pè faje fa na scorza più grossa. io ciò un segreto: quanno me fa male er core, pijo e lo stringo tutto fino a fallo diventà tipo na noce de na pesca. che pè rompela quell’infamona devi pijà er martello”
“ma funziona come metodo?”
“boh nun lho mai provato, ma te provace”
“mhai ariconfuso. ce proverò. le sto a provà tutte”
“sarà colpa d’erico”
“quanto sei stronzo”
“pè questo so amico tuo e sto sempre qua”

tanti auguri fà

Fare a botte per davvero è fico, scrociasse, riarzasse gonfi e stanchi, ma io non lo faccio. Separare il bene dal male è fico, co tutte le bollicine che salgono nel cristallo di bohemia e nessuna paura, ma devo sta fatto, sennò sostanzialmente non lo faccio. Sputare per terra è troppo fico, bocca storta, ennesima nota che stona lungo lo spartito, mi reprimo, non lo faccio. Tipo, fare i buffi coll’adolescenza è fico, nascondersi tra le calde labbra del grugno, del ghigno, del ringhio, lo faccio, schiaccio e spingo, che davero davero.
Buttasse de sotto è fico, cosi dicono, non ce la faccio.
Buttasse cor paracadute, cor deltaplano, coll’aliante, col parapendio, co tu zio quello colla barca a vela, che fa surf sulle onde, il delta del mekonghe, maccompagno co du bionde, fico, niente.
“che bello l’orizzonte” non fa fico, però mesà che ogni tanto mè scappato. Ogni tanto sbavo. Mastoaddormì!
Ogni tanto me piano certi incastri nel cervello che il cubo de Rubik in confronto.
E quella volta che ci siamo dati la mano, ci siamo sorrisi, e qualche tempo dopo semo finiti allo smorzo a buttà i calcinacci? Che avevamo distrutto tutto? Fico.
Annà sull’elefante fa schifo, mai fatto. Da da magna alle giraffe, accarezzà il serpente, senti viè qua, non è viscido come dicono, eh senti! Nun avè paura, è fico, noneeeeeeee, non lo faccio.
Gioco colla scimmia però. Sulle prime po parè pure fico non lo nego ma poi, finite le banane, se passa ar cocco, caffè, amaro, per favore mi porta il conto.
L’altro giorno lo sai che ho fatto? Ho rapinato na banca, ficoo, reato contro il patrimonio! Ficoo, non è vero. L’altro giorno è morto mi nonno, fa tenero, tenero a volte è fico, poveriiino.
L’altro giorno annavo a trovà sti amichi al circeo quando non sai che mè successo! Sul treno chi te becco? Chi? Non incontro Chiara!? Capito chi Chiara? Chiara Chiatti. Quella che mi si violeva fare ma io dovevo lavorare, lavorare, e ancora c’ho paura dell’aereo, me fa strano quanno sale, me fà, ma ndo vai al circeo, viè co me sul Bormeo, siamo io, Laura, Romeo, e i mega sordi de Romeo, te lo ricordi Romeo?
De viaggio so tre mesi annao e tre mesi a tornao, in più sei mesi in Vietnam, e sei mesi in Laos.
Che ne dici? Non te pare na ficata? E tu che je dici nao. Ma come faccio, non posso.
Lo snorkeling darling? niente, Non lo faccio. Fico?
Stai in giro per il mondo e incontri persone diverse, culture diverse, abitudini, e ti confronti, magari arimedi pure, perché sai l’inglese, questa megalingua che se po parlà senza esse inglesi ne inglesa, un tapirulan tra stocazzo e quest’altro del globo chiodo schiaccia chiodo, l’hai visto “Come un Tuono”?? fico, lui è bravo, peccato per il finale però, dai la storia dei figli, un arzigogolo di troppo, sta mania che saggiusta tutto..
Te sei mai annato a vede un granpremio? Il rombo assordante, sorpasso bruciante, me sé spezzato un dente quella volta sulle rapide del Nilo mentre cor caiacche discennevo la corrente, fermete, nsai che bomba…
No, Però c’ho na foto su instagram co namico all’isola Tiberina e una sull’aniene. Vale?
Le cose so chiare, come fai fai male, tanto vale dormire. O non dormire? Aspè, come doveva da esse il finale?

Il chiodo fisso

C’ho un chiodo fisso nel cervello. Lo sfilo un attimo solo per leccarmi il sangue che fuoriesce. Poi lo rimetto al posto suo.
Mi piace quel sapore, lo amo. C’ha quel retrogusto ferroso che probabilmente deriva dai primi accenni di ruggine. La ruggine, proprio lei, fa rischiare l’infezione. E sapete quanto fa male un chiodo infetto? Vi è mai successo? Irrita tutto il corpo, altera le percezioni, provoca visioni e disorienta.
Ma intanto non ci penso. Mi gusto il mio chiodo, me lo giro lentamente nel cervello facendo una lieve pressione. Lo ruoto rischiando di allargare il foro? Magari spero che allargandolo prima o poi posso cadere da solo?

Domande che rimangono senza risposta. D’altronde so per certo che questa sensazione mi piace. Alterno dolore e piacere. Gusto quel sapore. Aspetto l’infezione andando incontro al mio destino. Ci sono persone che sono morte con quel chiodo in testa. Altre che lo hanno curato e coltivato. Amato più di quanto io possa immaginare.
Hanno scelto di tenerselo. Coraggiosi loro.
Mi ripeto sempre una frase di Kafka in cui diceva che era un bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in così modo diventa più sensibile a ogni morso”. E me piacciono anche i morsi.
Mi piace farmi mordere. Perché convincersi di diventare insensibili al dolore è stupido. Lo stesso vale per le passioni. Si può diventare indifferenti al dolore. Si può far finta che non ci sia. Ed è come avere un chiodo nel cervello.
Puoi fingere di non averlo. Se sei bravo te ne accorgi solo quando pulsa forte che ti fa sembrare che la testa stia per esplodere. Ma così fa male davvero. Tanto male.

Per questo ho scelto di curarmelo. Di viverlo. Di sentirlo. Sperando di non raggiungere la cancrena.

uno strano amico

Viveva a scatti. La ghiera che girava dentro girava a scatti. Ed era pericoloso.
Pericoloso perché l’attimo prima del click non dava segnali.
Pericoloso perché l’attimo dopo, se t’eri salvato, tutto tornava come se non fosse mai stato.
Beveva come un addannato, sempre attaccato, tracannava a grossi sorsi avido di umidità.
Mangiava come uno sprocedato, ma restava smirzo e allampanato, manco fosse stato a digiuno dal giorno in cui era nato.
Fumava, se fumava tutto, pareva un caminetto.
Rideva isterico, ipnotizzato da quei momenti in apnea, sospeso come un acrobata sulla fune di uno scherzo, sopra l’abisso. Piangeva a dirotto, non sapeva per cosa, bastava il soffio di un ricordo lontano e vago.
La prima volta che lo vidi rimasi affascinato.
Mi guardava fisso e stralunato. Come se temesse che il mio corpo, con la mia sola presenza, potesse invaderlo, annichilirlo.
Mi temeva e desiderava al tempo stesso, forse curioso, forse bramoso, forse quella stessa invasione in realtà era una sofferenza divenuta nel tempo bislacco desiderio.
Diventammo amici trascorrendo la maggior parte del tempo dei nostri appuntamenti in silenzio.
Seduti l’uno vicino all’altro se ne stavamo immobili a guardare il mio cane gironzolare sul prato di turno. Sembrava che i movimenti armoniosi dell’animale lo rapissero, oppure, a rapirlo era chissà quale pensiero, e che il cane era solo una scusa, una distrazione, per paradosso.
La nostra amicizia non aveva nessun futuro. Non aveva un fatto futuro, un posto futuro, parole future, non si immaginava in nessun modo, soltanto era, era quell’appuntamento fuso nella similitudine con tutti gli altri.
Stavamo su quella panchina sul ciglio del niente, ascoltando il silenzio.
Dondolando dondolando, tiro dopo tiro, sorso dopo sorso, minuto dopo minuto.
Fu così che imparai ad ascoltare il silenzio. Ascoltare quanti silenzi esistono. Se impari ad ascoltare il silenzio impari ad ascoltare quanti ce ne sono e quanto le parole siano sopravvalutate.
Ce sono tanti quante le emozioni, e sono riconoscibili tutti, ad uno ad uno.
Passano veloci, si fermano, ma li puoi carpire solo se impari quale è il trucco.
Ci perdemmo di vista, come si perde tutto, in un momento ogni volta lo stesso, con quel groppo in gola che si prova quando si perde, con quella nostalgia che si prova per qualcuno che si è perso, e la panchina rimase avvolta in un silenzio diverso, mai sentito prima. Un silenzio solo, come solo ero rimasto.
Ma tornerà, ci scommetto, tornerà a sedersi di nuovo al mio fianco.

Carica a salve

Non aveva mai pianto. Odiava farlo. Diceva sempre che era inutile e che non avrebbe risolto niente. E non era atteggiamento da macho, pensava semplicemente che piangere era come sanguinare.
Ma quella volta pianse, non perché semplicemente soffriva, ma perché si sentiva disorientato. Avete presente come fanno i bambini quando si perdono? Stessa identica cosa.
Pianse e si nascose, perché non voleva essere visto. Odiava la propria debolezza. Avrebbe voluto e dovuto raccontarlo a qualcuno ma non si fidava di nessuno. Riuscì di casa dopo 9 giorni e ritrovò tutto immutato: gli amici, il bar, le solite chiacchiere. D’altronde perché avrebbe dovuto cambiare qualcosa? Ma poi cosa?
Aveva raccontato a tutti che aveva avuto un febbrone, di quelli virali, per questo non aveva chiesto aiuto o che qualche amico lo passasse a trovare. Si sentiva stanco, come se davvero avesse avuto una febbre alta per giorni, ma non era stanchezza: si era svuotato. Non solo le lacrime scese copiose per ore e ore, ma quel lento abbandonarsi, quello scaricare tutte le energie, comprese quelle residue, per poi arrivare a un punto in cui più giù non poteva più andare.
Non c’era stata caduta ma solo l’atterraggio. Improvviso e devastante. Dentro si ruppe qualcosa, lo sentiva, ma sentiva altettanto bene di non avere gli strumenti adatti per potersi riparare. (altro…)

Male Cane

Con il muso spostò il primo, il più grosso dei calcinacci, sentì l’odore sottostante e cominciò a scavare con le zampe.
Intorno non c’era niente di vivo che si muovesse, neanche il vento.
Dalle guance colava bava bianca, schiuma, e le orecchie ciondolanti erano appese ad un corpo rinsecchito dalla carestia. Con il furore meccanico della fame scavava, con la sicurezza che il suo olfatto non lo avrebbe tradito.
Quello che stava succedendo non riusciva a capirlo.
Poteva sentire la colpa, gli esseri umani lo avevano abbandonato, nessuno più gli si avvicinava da tempo, quasi aveva perso i contorni dell’immagine del suo amico erectus.
La vita era mera sopravvivenza e solitudine, niente di più.
Spostò i sassi, grattò, infilò il muso quindi grattò ancora. Con un balzo, deluso, si girò e si rimise in marcia. Non c’era niente neanche lì sotto.
Camminava al trotto, con l’asse del corpo leggermente spostato verso destra, le orecchie all’indietro ed il muso basso, il più vicino possibile ad eventuali notizie dal suolo. C’era solo quello.
Passavano anche giorni interi senza che mangiasse nulla, senza che incontrasse qualcuno, qualcosa.
La terra era arida e dura come fosse stato tufo sabbioso, rossa come il tramonto.
Arrivò sotto una collinetta che era ormai stremanto dalla fame, dalla stanchezza, dalla frustrazione. Arrivò in cima e si sedette.
Era il re del nulla, come i leoni lo erano stati nella savana. Ma Nessuna criniera lo torniva, nessuna leonessa, nessuna antilope, solo buio e polvere.
Una vento leggero gli carezzò l’umidiccio tartufo nero. Socchiuse gli occhi all’onda della polvere.
La lingua pendeva lunga dalle fauci secche, i denti biachi scintillarono alla luce lunare. Davanti a lui un’immensa distesa d’acqua.
Con fatica si alzò, trascinando i lombi anchilosati di nuovo in piedi.
Scollinare, sdraiarsi definitivamente su un fianco, riparare dietro una carcassa di qualcosa che un tempo servì gli uomini, e riposare.
Dormire, per non sentire la fame e la sete.
Solo questo poteva immaginare.

Quer pezzo de core tajato

V’hanno mai tajato un pezzo de core? Eh? Mai? A me è successo 18 anni fa più o meno.
Oh è na cosa strana. Manco te ne accorgi. Te chiamano all’improvviso e te dicono “aò guarda che t’avemmo reciso un pezzo de core, ce dispiace”. E tu sgomento je rispondi pure “Ma che stai a dì aò?! Ma come, io manco me ne so accorto”. (altro…)

Legge di stabbilità

Stanno sempre a parla de sta legge de stabbilità, de sto patto de stabbilità, che serve stabbilità… ma se so mai guardati intorno? Eh? Ma nun vedete come stamo tutti?
Io ad esempio se c’è na cosa che m’è sempre mancata è proprio sta stabbilità. So volubile, lunatico, dico che vojo na cosa ma poi me sa che ne vorrei nantra. So instabbile in tutto, tranne che nella fede calcistica. Quella sta scritta nel DNA, tipo er colore degli occhi. Dunque si fanno na legge che ce porta stabbilità io so pure contento. Magari serve pure a me. Magari serve pure a capicce quarcosa de sta vita che è na caciara. Quanno pensi de fa na cosa che te piace, dopo 2 ore, già te sei cacato er cazzo. Quanno pensi de amà davvero na persona è la volta bona che t’accanni dopo du giorni. E magari sei convinto de fa na cifra de scelte giuste che poi se riassumeno in un disastro. Pessimista? Boh. Ma si ce pensamo bene infonno er pessimismo e l’altra faccia della medaja dell’ottimismo.
E allora rimanemo lì, confusi come un turista a Roma che cerca de movese coi mezzi pubblici, in preda de passioni spesso sbajate, de voje spesso articolate talmente tanto che alla fine manco te ricordi più che volevi.
Ce rimane la paura, forse l’unica cosa stabbile che ce sta ar monno. Ciavemo tutti paura de quarcosa. C’è chi da regazzino cià na paura e co quella stessa paura ce more dopo 80 anni. Capita pure che pè supera ste paure annamo dagli pisicologi e spennemo soldi pè fassele levà. Magari ce riescheno. Anzi spesso ce riescheno e te sei contento. Torni a casa e pensi “aò nun ciò più quella paura” ma poi dopo dù giorni t’accorgi che o ciao paura che te torni quella paura oppure ciai nantra paura magari pè quarcosa che prima nun te faceva paura.
Nun ce state a capì niente? Eh, io manco. Ma io almeno so sereno, nun ciò mai capito niente. E allora zitto zitto me leggo er giornale e penso: aò daje co sta legge sulla stabbilità, se moriremo de fame, ma c’avranno risolto na cifra de problemi pisicologgici.