vado defretta

una sera a sangiovanni per una visita esosissima dal dentista (STONFAME)
a na certa finisco, scendo, esco dal portone, vado alla vespa, metto le “chiavi”, brummm…..ts
se spegne, come sempre.
allora daje colla pedalina..
non parte.
ad un certo punto..
sento urla venire da dietro langolo
sempre più vicine sempre più forte
io che guardo
che aspetto
quandecco che sbucano dall’angolo
una ventina di maschi
visi coperti
vestiti casual
verghe alla mano
che si inseguono, malmenano, cascano
scivolando qualcuno va a terra e si rialza
pronto ad un nuovo scontro

non sò cosa pensare
ma guardo, curioso
e mi vengono in mente
passati nei dintorni
via domodossola chi sà
sà quante botte

ma niente, non è così.
la storia finisce
presto
tra risa e schiamazzi

erano ragazzini sui 15
armati di bastoni di gomma piuma
che inscenavano la guerriglia metropolitana
cosi per gioco.

mentre sento che la fine si avvicina
il cielo è nero come il futuro
e un sorriso mi solca il viso
daje tutti penso
si daje tutti e forza lazio

oibO

Odio questa città , la mia, odio i politici che la governano, odio i costruttori che la cementificano, odio i quartieri alto borghesi esclusi dal pagamento  dell’ICI, odio i quertieri novi fori dal raccordo, odio i fori sede che manco sanno dove abitano, odio la gente che si arrende e se ne và, odio la gente che si arrende e viene qua, odio i quartieri aripuliti che se danno un tono, odio i liberali di sinistra che parlano, che dicono, ma che non sanno, odio veltroni, odio le mostre, odio le feste sui terrazzi, odio chi apre la bocca e je da fiato, odio i froci blablabla, odio le lesbiche che se sentono avanti, odio gli immigrati “si signore”, odio gli stupratori, odio i radical chic che snobbano, odio quelli del questo si va bene, questo no, odio gli elegantoni de stocazzo, odio chi se dà ntono, odio i metallari con la musica che se sentono, odio chi sona la chitarra piripiripi, odio chi mette i dischi e pensa de stà a sonà, odio gli hipoppettari mbriachi de malavita, odio il lavoro, il lavoro, odio il lavoro sopra ogni cosa. Odio la gente asservita che s’accanisce col più debole, odio la guerra tra poveri, odio le armi dell’ipocrisia, odio le armi bianche, odio le armi nere, odio le mille stronzate che la gente ripete a pappagallo, odio chi cavilla sulle desinenze, odio chi non s’è accorto che ce lo stanno a mette ar culo senza strigne i denti, odio i pacifisti, odio i guerrafondai, odio chi se và a nisconne dentro un ghetto, odio chi se ne stà ogni sera sul divano, odio chi non esce per paura dell’alieno, odio le birre a cinque euro, odio la togliatti piena de mignotte, odio i lavori della metro c, odio le 5 milioni di macchine che girano e girano e girano e non se sa ndo cazzo vanno, odio i pulman pieni de turisti, odio soprattutto quelli scappottati, quelli panoramici, odio il centro senza più romani, odio le giunte dal milleenovecento settantotto, odio i caporali, odio gli zio tom, odio i veli sulle teste delle donne, odio le stronzate della religione, odio la paura della gente, odio la paura mia che nessuno spegne, odio quella scintilla che nessuno vole accenne, odio la televisione, odio il calcio moderno,  odio chi si scandalizza, odio chi fa l’antirazzista a buffo, odio le feste cyber punk, odio i pischelli che morono de robba, odio il nichilismo, odio il controllore sul treno, odio le regole stupide che nessuno sa il perché ma je porta rispetto, odio li mortacci mia che m’hanno fatto nasce, odio stò monno pieno de ingiustizie, odio quello che capisco, odio i cosmopoliti de sto cazzo, ed odio il lavoro, si! odio il lavoro soprattutto.

il cavaliere ..

Arrivò di soppiatto, la prese fra le braccia solevandola da terra, poi, senza proferire parola la butto di sotto.

La gonna disegnava nell’aria voluttuose forme a ics frustandole con i lembi il viso incipriato.

Ma ella sosteneva il vuoto con il suo solito sguardo impavido.

Lui, si rammaricò, ma mai abbstanza da pentirsi di ciò che avrebbe fatto.

Lei, invece, in colpa ci si sentiva dalla nascita.

Per che cosa?

Poi si udì il tonfo. Le membra si dilaniarono schizzando sangue tutto intorno.

I passanti si assembrarono velocemente tutt’intorno la macabra scena.

Poi, una donna, avvicinatasi per caso distrattamente lo riconobbe.

Era lui. Era batman.

Il Volo di Italo

Mi chiamo Italo, il mio sogno è quello di volare. L’ho sognato perfino stanotte dopo che mio padre mi ha regalato le sue ali di cera. Dice che devo stare attento e che non dovrei passare vicino alle fonti di calore. Lui le usò per fuggire dal suo labirinto, peccato che non si sia accorto di essere finito dentro un altro di questi labirinti. Mio padre si chiama Dedalo ed è un uomo forte. Ha viaggiato, sconfitto avversari e conquistato donne. Ho tentato di spiegargli che non voglio fuggire da questo labirinto. Io non sono come lui, non sono capace.  (altro…)

Necrologio per la Nasona

Era un po’ che non passavo da lei. Manco me ricordo più l’ultima volta. Però l’altro giorno, col fatto che avevo un po’ di tempo, me so detto "annamo un po’ a vede come se la passa? sto quartiere in fondo se sta a trasformà". Hanno ripulito pure i palazzi dove so nato e cresciuto. Ora so brutti lo stesso (e manco poco) pero’ non hanno i pezzi che cadono, i cornicioni crepati, il segno dell’abbandono. Tutto pe’ venneseli a qualche euro in più, se chiama cartolarizzazione quasi come i negozi ndo annavi a comprà i quaderni da regazzino. Esco dal cancello e faccio sto tratto de strada che quando ero piccolo me sembrava infintito. E’ stata la prima frontiera, il primo obiettivo de noi regazzini piccoli. E lei ce accojeva, come accojeva tutti. Noi regazzini, i vecchi, quelli che tornavano da scola o chi se fermava ar volo. Ce rifocillava dopo le interminabili partite a pallone che facevamo pero’ nella strada parallela, quella ndo non passavano macchine che a vedella oggi me viè da ride. Per noi era un campo da pallone, er più asimmetrico der monno, ora non passano manco i pedoni per le macchine che ce stanno. E lei ce accojeva sempre a braccia aperte e noi je volevamo bene. Come je volevano bene un po’ tutti, pure i tossici del quartiere che annavano a fasse davanti a lei, anche se ma la maggior parte c’aveva er buongusto de rimanè seduti dentro i loro cinquini; magara era rispetto quello che provavano.
Ma l’altro giorno quando so annato da lei, me sarei aspettato de tutto tranne de trovalla li. Spenta. Secca e morta come un albero appassito. Ancora tinta de giallorosso dallo scudetto de 9 anni fa. Ma pure il marmo sotto de lei ormai s’è crepato, come er coperchio de na vecchia tomba.
Ammazza che tristezza che m’ha fatto. Ce so proprio rimasto male. "E mo i regazzini ndo vanno?" me so chiesto. Abbacchiato so’ tornato a lavoro. Era l’unica de tutto l’isolato. Era proprio unica. Ora non so se c’è na sorella rimasta viva in quello stradone de periferia. Una stava all’inizio del vialone, 300 metri prima, ma non ho avuto er coraggio de annà a vede. Ero troppo triste.

Ciao Nasò, grazie de core

http://yfrog.com/f1immag0151j

 

 

Leggende

Tutto comincio così.

Era un dannatissimo giorno di Luglio del 2010, quando ebbe inizio la storia che poi divenne leggenda.

Roma, Fiumicino, Aeroporto Internazionale Leonardo da Vinci.

Marco e Alfio erano due operai della manutenzione Impianti. Quel giorno come tutte le mattine erano lì alle sette a bere un caffè delle macchinette e fumare la loro merdosa marlboro rossa.Il resto della squadra era già partita per un intervento al Terminal 1, voli nazionali. Loro due erano rimasti lì, a godersi quella pausa caffè in quelli che sarebbero stati gli unici attimi freschi di quella merdosa giornata.Come ogni giorno oramai da qualche tempo avevano da svolgere la solita pantomima.Avevano accumulato almeno cinquanta richieste dello stesso tipo. L’aria condizionata dell’aerostazione era  troppo forte. Finita la sigaretta si avviarono coindolanti e scazzati verso il blocco impianti. Non era una questione che potevano risolvere loro, quella.. L’aveva spiegato l’azienda con tanto di comunicato ufficiale. L’aria Condizionata veniva generata da un impianto vecchio, ed era centralizzata,  non era quindi possibile separare quella che condizionava gli uffici da quella che condizionava le aree che ad uso passeggeri. Con il risultato che negli uffici e nei locali chiusi, in maglietta si gelava, mentre tra porte che si aprivano per il passaggio continuo dei passegeri, i luoghi ampi, e i movimenti concitati ed il peso dei bagagli, i passeggeri la trovavano refrigerante e piacevole. Ma tantovaleva far vedere che qualcosa si stava tentando di fare. La stanza del blocco impianti era rumorosa e bollente. Alfio entrò solo, mentre Marco rimase fuori ad apettare. Tutti i livelli erano regolari, il termometro stabile, e le ventole attive. Il cervellone che comandava tutti i motori era funzionante secondo norma. Alfio, di testa sua, decise che per far smettere le chiamate di intervento fosse il caso di alzare un po’ l’aria di modo che a cominciare a lamentarsi fossero non più impiegati ed operai dell’aeroporto, bansì i passeggeri. A quel punto magari averbbero principiato loro con le lamentele, può darsi, ma almeno erano lamentele che non sarebbero arrivate al servizio Impianti. Mise mano, apri lo sportellone della centralina, cercò e quindi spinse il bottone “UP”. Ma il cursore digitale della temperatura digitale rimase inchiodato. Riprovò per la seconda volta e nulla si mosse. Scocciato tentò di pigiare più forte, affondando con l’unghia del pollice nel tasto molle e spungnoso. Nisba. Poi, dopo aver spinto e rispinto più volte, demorse, voltando lo sguardo affranto in direzione dell’uscita, sentiva un caldo bestia dentro quella stanza angusta immersa nel fracasso delle ventole. Quando tornò a fissare il quadrante per chiudere lo sportellone, vide che il segnale dell temperatura era cambiato, ma nella direzione opposta, si era abbassato. Aveva tentato invano di alzare la temperatura e quella stronza invece si stava abbassando. Sudava come un maiale, grondava. Non ne poteva più, ed erano solo le sette e trentacinque del mattino.. Uscì, Marco lo guardo e lo derise perché quell’intervento inutile era costato al povero Alfio litri di sudore e qull’espressione basita che adesso portava il suo viso. I due fecero finta di niente e cosi come erano venuti se ne tornarono indietro, ciondolanti. Alle undici i più cominciarono ad accorgersi di quanto stava avvenendo. Gli impiagati cominciarono a recuperare negli armadi  le stufette che usavano d’inverno per scaldare quelle stanze buie, alle prime ore del mattino. I passeggeri cominciarono a cercare le felpe ben piegate sul fondo dei loro pachidermici bagagli estivi. I baristi ed i negozianti tutti cominciarono a tempestare il numero interno per lamentarsi con il Srvizio Impianti per quell’aria troppo fredda che usciva da ogni bocchettone sulla loro cazzo di testa. Il Capo chiamò Alfio e Marco intimandoli di porre rimedio alla situazione in un nano secondo previo calcio inculo potente e immediato. I nostri si fiondarono, ma la situazione che si presentò loro fu la medesima. Poi in seguenza; Li raggiunse il Capo. Poi il Capo del apo. Quindi il Capo del Capo del Capo.

Niente. (altro…)

nineties

c’erano du pischelli. Al primo je puzzavano i piedi, al secondo le ascelle. Stavano tutto il giorno buttati in un cortile a cazzeggiare. Ridevano del nulla, se divertivano co poco. Poi s’aggiunse er terso. Che invece nun puzzava in niente. Occhi azzurri, zazzera bionda e nessun maleodore. Che all’inizio l’antri due s’ensospettirono…se dicevano, aho ma questo qui che vole!, boh, sarà mica na guardia?? cisua!?, noooo maddechè, che così giovane già poi fà la gurdia?? mbè, perchè no?! te dico de no! vabbè allora sarà er fijo de na guardia.., dici?! poesse. Passarono i giorni, i mesi, e in tre diventarono 4. S’aggiunse er secco, uno che pareva potesse mori da un momento all’altro de fame, svenuto pertera. Invece ada vede come jammollava. Se facevano settanta canne al dì, eersecco era l’unico che le reggeva sino all’ultima. Il biondo, quello bello, tornava a casa per cena che c’aveva l’occhi del westham, rossi fori, azzurri dentro. I primi due invece, siccome che fumando sballavano, comincianvano a puzza come matti. Poi un giorno arrivò il quinto. Un amico der secco, uno co na faccia da paraculo che levate. Uno che parlava poco. Uno che menava ‘botto. Un malandrino insomma, che voleva esse malandrino.La banda cominciò a movese pe Roma a fà danni. Fedele a se stessa e fedeli gli uni algli altri. Quandè che accadde la toppa. Inaspettata. Perchè potevano esse smaliziati quanto volete, ma stò fatto non l’avevano calcolato.Un giorno arrivò una pischella. Adavede che scene quel giorno. Tutta na coda de pavone che s’arzava, tutta na tensione negli sguardi, che cominciavano a ‘nbruttisse, ma mica per odio, per competizione. Ma fu nulla in confronto a quello che successe quanno sta pischella se presento co du amiche sue. Una mejo de n’antra che già lei era assai caruccia. Insomma erano diventati 8. Tutti coatti, di cui 5 arrapati farcichi, e 3, che se ce provi te faccio menà da mi fratello. Er secco nun se lo spiegava stò fatto che ogni pischella avesse stò maledetto fratello grosso che je prudevano le mano. Ma tant’è, se dovevano regolà, pe rispetto, se non per le tre amiche almeno pe stò fratello. Che non era sempre facile. Al mare per esempio, le docce fredde che se dovevano fà se specavano. Che a mala pena jeselafaceva a vedelle cosi belle coi costumi, che quanno se mettevano a giocà a guerra in acqua, e je se strusciavano, ridendo co sti sorisi belli che se le sarebbero volute magnà per quanto erano belle.

Passarono gli anni e si sà le cose cambiarono, si separarono, litigarono, scoparono anche, alcuni, tra de loro, finalmente. Ma se vollero bene per sempre, bene che se pe sbajo se incontravano se riconoscevano un attimo prima d’essese incontrati. Una magia di cui nessuno fu padrone, se non il tempo.

105

Il 105 non è un autobus è qualcosa di più.
Un suk metropolitano dove non si vendono merci ma si ammassano corpi che attraversano Roma dalla Stazione Termini fino a Grotte Celoni, estrema periferia romana. Che poi per come la vedo come io Grotte Celoni, stando qualche km oltre al GRA è fuori Roma non periferia, visto che non riesco a comprendere i quartieri oltre la cinta stradale come territorio cittadino. Io sono cresciuto in periferia, talmente in periferia che in fondo al vialone di casa mia c’era il cartello Roma con la sbarra che indicava la fine della città e stavamo decisamente dentro il raccordo.
Comunque Grotte Celoni è talmente periferia che pure quelli di Tor Bella Monaca si sentono dei privilegiati in confronto, eppure stanno li dietro anche loro.
IL 105 l’ho preso poche volte, vista la mia allergia ai mezzi pubblici, e soltanto nel tratto finale. Però spesso e volentieri lo sorpasso o lo incrocio proprio su quella linea stretta e retta che è la Casilina ed è facile riconoscerlo. E’ sempre pieno. Pieno di giorno come di notte, anzi direi soprattutto la notte, quando si comprimono corpi scuri e sudati, stranieri che aspettano di essere trasportati ai margini della città dopo magari aver lavorato ore e ore in qualche pizzeria o ristorante del centro, nascosti dentro le puzzolenti cucine per turisti.
E’ talmente pieno la notte che spesso passano alcuni minuti prima che riesca a lasciare Porta Maggiore e consentire a questo esercito di disperati di riuscire a salire per raggiungere quartieri come Tor Pignattara, Centocelle, Alessandrino, Torre Gaia o Giardinetti.
Il 105 è un boat-people su gomma, moderno e metropolitano, con il suo carico di uomini e donne che fanno avanti e indietro per un paio di decine di km prima di essere lasciati nei loro tuguri di periferia.
Se volete capire come vivono gli immigrati a Roma prendete questo autobus, non serve neanche prenderlo all’ora di punta. Non ha un’ora di punta. Sentirete odori e linguaggi che si mescolano, sudamericani, bengalesi o donne dell’est aggrappate ai loro telefonini con un occhio alla fermata per cogliere gli odiati controllori dell’atac (sì ora si chiama metrebus ma sono un nostalgico), schiacciati in questa infernale linea. Oppure prendete la diligenza su rotaia, l’FM3 Roma-Pantano, che praticamente fa la stessa linea del 105 ma lo chiamano metrò leggero o trenino. Peccato che la parola trenino ci faccia tornare ai nostri giochi infantili e non a questi due vagonil, lenti e bollenti, che si trascinano a fatica.
Il 105 è la linea più temuta dagli autisti atac, almeno secondo il mio amico che fa questo lavoro, viste le numerose aggressioni subite dai conducenti. E gli aggressori non sono gli utenti stranieri dell’autobus. No, sono gli italianissimi romani che abitano nella periferia sud.

Alla sera

Forse perché dalla fatal quiete Tu sei l’imago a me si cara viene, o Sera. E quando ti corteggio liete le nubi estive e i zeffiri sereni E quando dal nervoso aere inquiete tenebre e lunghe all’universo meno, sempre scendi invocata e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai coi miei pensieri su l’orme Che vanno al nulla eterno, e intanto fugge, questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirito guerrier ch’entro mi rugge.

Duelli

Rimasero a guradarsi fissi negli occhi per molti istanti.

Frank grondava raccogliendo sudore perlato lungo le scapatoie delle sue forme. 

Si fissavno agghiacciati, tesi come ghiaccio in una notte di ghiaccio.

Poi qualcosa si mosse, impercettibile nella sua mano.

Un dito lentamente, molto lentamente, andò a separarsi dagli altri.

Finchè di nuovo resto tutto immobile, fermo nell’aria ferma di questa notte già ferma.

Ora il Medio si stagliava beffardo dal suo pugno chiuso.

Fu in quel momento che Jhonny uscì completamente di senno.

st.rt