in nessun posto

Mi accorsi che non ero mai stato in nessun posto. Eppure avevo visto allontanarsi dietro di me figure fisse e immobili, lasciate lì, appese, a teneri saluti colmi d’affetto.
Avevo desiderato andare da sempre, ma qualcosa mi teneva ormeggiato lì, con le vele piegate ed intonse, ostinatamente, sul molo a rimandare. Un filo invisibile, un ricatto, un rancore.
Sognavo ad occhi aperti, e non appena li chiudevo, davanti a me il culo di una macchina, parcheggiato sul ciglio polveroso di una strada assolata nella luce del mattino.
Sul sedile posteriore, appollaiata come un aquila impavida, tutta la solitudine del mio mondo con la sua magnificenza.
Avevo desiderato salvare mia madre. Ma Non la incontrai mai abbastanza. Troppo dolore lei, troppo dolore io.
Avevo desiderato salutare mio nonno ed andare, lasciandomi alle spelle un suo sguardo severo e impaurito, ma onesto, pulito. Se ne era andato lui per prima, lasciando me qui, a salmodiare.
Avevo desiderato la vita, la mia vita, più ardentemente di chiunque altro.
Si stava consumando anche lei come un jeans vecchio tipo.
Posseggo una lacrima che goccia dal mio cuore di angelo, imperterrita. Una perdita nelle tubature inox dell’anima.
Se chiudo gli occhi non vedo che distese desolate da attraversare veloce, lande infinite solcate da linee grigie d’asfalto, deserti, foreste, montagne, fiumi, tramonti rosso fuoco davanti ai quali squalgliarsi e ricordare.
Fino a quando. Mi chiedevo. Fino al mare, rispondevo.
Ma non mi importava davvero. Avevo paura, non posso negarlo.
Chi avrei incontrato davati a me , chi mi sarei lasciato dietro.
Avrei inseguito i miei fantasmi nel cielo nero, bruciando come una stella cadente nelle notti d’agosto e volando come un missile, avrei distrutto ogni ponte appena attraversato, irrangiungibile e bellico, questo sò per certo.
E quelle nuvole? Corrono! Impazzite! Verso dove? Avrei incontrato quante piogge, e quanti soli?
Avrei incontrato nuovi amori, nuove passioni, fuggevoli, sfuggenti, nuovi corpi e sospiri, mille desideri, capri espiatori. Mi sarei adagiato esausto fra qualche abbraccio consolatorio. Avrei mangiato volti, sguardi, sogni di qualche vagabondo o vagabonda. Questo volevo. Questo ero e ancora sono, un inconsolabile bambino.
Ad ogni mio passaggio si sarebbe ridestato qualche spirito ribelle, assopito chissa quando e chissà dove, non è importante. Ad ogni mio passaggio un nuovo incendio.
Sarei passato in ogni luogo, posando la mia ombra con attenta distrazione. Avrei bevuto in milioni di bicchieri sudici, calici colmi di speranza fra milioni di sudici ubriaconi.
Mi sarei addormentato alle prime luci dell’alba attorcigliato tra mille fili slegati. Dormito fra mille serpenti. Finito e senza sogni. Svegliato nella calura del primo pomeriggio. Senza più sapere dove. Senza più saperne il tempo.
Ognuno avrebbe parlato di me, almeno una volta nella vita. Chi ammirato, molti con sdegno, regalando parole dure come l’amore e l’odio.
Ho un sorriso per chiunque, l’avrei avuto anche per loro, e Avrei avuto un sorriso, l’ultimo del giorno, tutto per me, e per chi mi siede accanto.
Dove sei amore mio?. Dove sei adesso?. Ho soltanto paura, o mi importa davvero?
Una parte di me vive al cimitero.
Fino a quando, mi chiedevo, fino al mare, rispondevo.

per chiunque

Quando partirono erano stanchi di un vecchio viaggio che avevavo fatto.
Un Viaggio che ricordava loro nel bene e nel male chi erano e chi sono.
Un viaggio salato, come il conto pagato.
In più, c’era un problema che non avevano calcolato.
Il Bagaglio ora era più pesante di quanto non fosse mai stato.
Continuavano a guardarsi dubbiosi sul da farsi.
Proseguire? restare fermi? aspettare tempi migliori?
Il sole alto nel cielo come una calamita attirava a sè ogni decisione lasciando svelata la logica del rimando, lasciando nudi due corpi che appartenevano ognuno all’altro, non certo ognuno a se stessa.
La calura imponeva gesti lenti e parsimoniosi, le energie erano confuse.
Si sentivano soli da sempre, ed erano feriti.
Due solitudini che si accompagnano. Questo erano, questo sarebbero sempre stati.
A loro sembrava bastare.
Per loro quello era amore, li faceva sentire sopravvissuti, ancora, e questo era il massimo che avevano da dare, lo spazio per l’altro non ci sarebbe mai stato.
Bastava soltanto che si guardassero, non c’era altro da sapere, capire, dire.
In fondo cosa c’e’ di così diverso da tutto il resto??
Per chiunque, alla fine, ciò che conta è la propria caduta.
Non l’atterraggio dell’altro.

che regazzino

Entro, de sguincio me ciocco la fila alle casse e penso: porcoddio che palle, so le otto e mezzo! ma comè tutta sta gente ancora?
Stamo a Roma bellooo, me risponno da solo, te pensavi de non trovà la fila? Ma ndo pensi de stà a Bolzano?
Ecco appunto, sbrigate piuttosto, e fattela pià bene, muto e rassegnato.
Non faccio in tempo a rassegnamme però, che La vedo. La prima volta al banco delle carni, io cercavo le fettine de vitella, lei quelle de manzo, poi alla bilancia delle verdure, io tasto 81, limoni, 32, pere, lei 45, Balotelli, 71 Lulic, 12, pomodorini pachino.
Tra na pesata e l’antra me ripeto: ..che regazzino! Ma la fai finita!??
Niente, mi rendo conto che vorrei vince na battaja che ho già perso. Allora, sconfitto, la guardo di nuovo, come prima tra la pezza de vitella ed il manzo, e lei pure me guarda, ma de soppiatto, o pe non fasse beccà cor sorcio in bocca, o perché starà a pensa “che palle questo”, tale e quale lo stesso dubbio infinito che me ponevo quanno che ero regazzino.
Non ho idea di quanti anni avrà, ma devesse giovane pefforza, perchè je vedo nell’occhi quella cosa che c’hanno i regazzini , quella stessa cosa che cercano nell’occhi dell’antra appunto, i regazzini .
ma la fai finita de fa il regazzino, ma stavolta la mia parte razionale è più maliziosa, cerca de convinceme dicendome, almeno dije na cosa no? cazzo te guardi e non favelli?.., ma non lo so che me dice la testa, non riesco a di na parola, eppure ne avrei l’occasione, ma non me riesce, pe timidezza, come quanno ero regazzino.
Pochi istanti dopo al banco del pane se rincrociamo, dev’esse scritto nel destino de quel supermarcato. Non riesco concentramme sulle cose da comprà, come dici? pane de grano duro? na ciabbatta? un cazzoto? Ma che ne so….fai te, damme quello che te pare, tanto io non ce riesco, me paro regazzino.
tepareva poi che non la incontro pure in fila alla cassa, ma stavolta non mefreghi! scelgo nantra coda! pe non dajela vinta, come i regazzini.
Non l’avessi mai fatto, nel giro de nattimo se ritrovamo fianco fianco, non so se è perché quello davanti a me è stato più veloce de quella davanti a lei, o perché la cassiera sua è stata più lenta, o semplicemente perché è il destino che sta in fissa a piamme perculo fatto bene oggi, come quanno che eri regazzino.
Non m’andrebbe de guardaje er culo, giuro non mandrebbe, ma lo faccio, come i regazzini.
Non mandrebbe de sta lì a pensà , avido, a qualcuna che fra poco non rivedrò più, ma al collo c’ho na scimmia co legato arcollo un “voglio”, come i regazzini.
Più la guardo e più spero che se rompa tutto, spero che entri adesso uno incappucciato col ferro in mano e faccia na rapina: mani in alto! giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per tera.
Viaggio, i contorni si ovattano, sento solo tiii tiiii tiii tiii del lettore ottico in sottofondo, come in dissolvenza, più la guardo e più rosico, pare che il viso je l’abbiano disegnato pe famme un dispetto, con quei tipici tratti che me fanno salì la pezza per qualche ragione strana e insondata, ma non la pezza de vitella….la pezza quella che me verebbe da dije: “ao, la prossima volta mettemese d’accordo, o la fai prima tu la spesa o prima io, insieme non ce riesco”.
Non faccio in tempo a ride de me stesso che Mannaggiallamadonna, viene er peggio. Perché sto giochetto è durato abbastanza da famme sentì leggero come quanno te pii le pasticche per l’’umore, il litio, le benzodiazepine, e sta cosa me spingerebbe dritto dritto in una direzione sola, dije na cosa, fermarla, rompe sto gioco de sguardi e rimedià un sorriso, una parola, mejo: il numero de telefono.
…ma statte bono statte, statte bono,! paga e zitto.! Che sennannamo.
..sta spesa maledetta, ho pagato, non me ricordo manco quanto, non me ricordo che me so comprato, se ho preso il resto, ‘ndo l’ho messo? e mentre apro la busta hai visto mai m’è finito qua dentro come un faggiano me volto, la vedo, me vede, e stavolta me sorride, giusto un attimo, giusto pe il gusto di vedere l’effetto che fa lasciare un impiccato penzolare tra le buste d’acqua minerale uliveto.
Me serve il colpo de reni adesso, una reazione, come Spartaco! al che me convinco che c’avro na caccola in fuorigioco, e quello non era un sorriso, ma solo una risata di scherno repressa di una ragazza educata.
…e comunque sia, Cicalò, quello che è sicuro è che il caso che te dai na svejata. Che non sei più un regazzino, pia sta busta piena de boh e vattene a casa. Forza!
Vabbè, vabbè, vabbè, ntencazzà, vabbene, annamisene..
…Però l’hai vista?! ..ammazza quant’era bona.

I Mostri di Ghiaccio

A me è mejo che non me cacate il cazzo, mai.
Mi ricordo da bambino lo diceva sempre mimadre, nel tentativo di incutere paura. E ci riusciva.
Non ce l’aveva con me, benchè intuivo chiaro lo avrebbe potuto fare, benchè lo stesse facendo da sempre senza volerlo, benchè non mi abbia mai ucciso davvero.
Perché un mostro non può uccidere suo figlio, è una regola dei mostri, e se non lo sapete è perchè non lo siete, siete solo umani.
Mentre lo diceva socchiudeva gli occhi per affilare lo sguardo minaccioso, immobile e tesa come una tigre che sta per saltarti alla gola, e lo ripeteva sibilando, sussurrandolo più a se stessa che alla minaccia di turno, come fosse per raccogliere le forze in quell’attimo prima di balzargli addosso, come fosse la parola magica, il rituale nella trasformazione.
Attaccava per paura. Non certo per fame. Benchè la fame l’avesse fatta. Benchè la fame l’avesse cresciuta, e con la fame si sarebbe sempre accompagnata, sarebbe invecchiata e infine morta.
Perché la paura fa questo, immobilizza, per renderci pronti alla fuga o all’attacco.
Nella paura il sangue corre verso il centro, confluisce dalle estremità togliendolo ai piedi, alle mani, alla testa, per questo lo sguardo si affila terrorifico.
Mimadre, come su amdre prima di lei, come i suoi fratelli e sorelle, come i suoi figli poi, avevano tutti subito la stessa benedizione.
Erano stati lasciati al freddo, esposti al ghiaccio per un tempo troppo lungo.
Corpi cresciuti immersi nella paura di morire, dal giorno zero, come cuori a bagno nella formaldeide che battono ancora nonostante il freddo.
Abbiamo guardato il mondo attraverso il ghiaccio, abbiamo gattonato sul ghiaccio, le prime parole sono uscite nel vapore acqueo, i primi passi sono stati su un lago ghiacciato, con il ghiaccio che scricchiolava sotto i piedi, pronto a rompersi ed inghiottirti nel buio.
Per questo amiamo il sole come fossimo lucertole, amiamo il calore, amiamo l’estate, la luce, amiamo la sabbia calda sotto i piedi sentirli gonfiarsi, la liberazione di sentire le cellule espandersi, spingere, invece che ritrarsi come fanno di fronte all’avanzare del freddo.
E’ per questo che a me, mimadre e misorella non ce dovete cacà ercazzo, mai.
Perché noi abbiamo già dato, non abbiamo più nulla da dare, non ce resta niente che non sia per noi.
Niente altro che battere nonostanete il freddo.
Siamo dei mostri perché adesso siamo quello che hanno fatto a noi.
Capito stronzetto? ed io sono il più forte perché il primo, perché maschio, perché adulto.
Non mi credi? Perchè siamo fragili? perché rigidi, perché congelati, scalfibili come il ghiaccio, senza l’elasticità per assorbire i colpi, senza la prontezza per spostarsi in tempo, schivare, perché siamo lenti a rimetterci in piedi dopo esserci spezzati?
A noi mostri di ghiaccio ci distruggi facile questo è certo, il problema tuo è che ti congelerai nel farlo, e tu non ritornerai qeullo di prima come noi, dopo, perché tu non sei un mostro di ghiaccio come noi, tu sei un umano.
Che a noi ce viè da ride, dopotutto, che l’inferno è caldo, che se sta con gli infradito, e si gioca co le fiamme e ci viè da ride perché sei te quello che deve accenne l’aria condizionata pe respirà, non noi.
Noi respiriamo nell’apnea del ghiaccio.
Tutto quello che tocchiamo reagisce come materia a contatto con il ghiaccio, se ci tocchi prima ti bruci poi congeli, piano, dall’estremità fino al nucleo, una tempesta di freddo che lentamente copre ogni centimetro fino a che non si ferma tutto, se non ti liberi dal contatto in tempo puoi stare sicuro che morirai assiderato.
Hai mai provato?
Beh, nulla di bello, te l’assicuro.
Io prima di abituarmici c’ho messo tempo, molto tempo, molto allenamento, allenamento duro. Capito stronzetto accalorato? Non il campo scuola, non gli scout, non un cazzo di corso di sopravvivenza del WWF, non i marò, no.
Sai come ci si sente a toccarsi e non sentire la pelle? Sai che significa non sapere più se si hanno ancora i piedi, se si ha mai avuto davvero la schiena, le spalle, toccarsi per sentire e non percepire nulla.
Sai che significa dimenticare i proprio bisogni? sentire il gelo avanzare e tremare cosi forte da non sentire null’altro che il rumore dei denti che battono, arretrare, fino a ripetere sempre la stessa parola all’infinito come se un ossesione potesse scaldare, come se potesse far dimenticare di noi stessi, potesse fermare il dolore, come se per non sentire la tenaglia del gelo avessimo dovuto cercare una distrazione sorridendo alle farfalle appese sulla culla, come se per non sentire avessimo dovuto cominciare a pensare, capire, fantasticare, andare via per sopravvivere, andare oltre, oltre il terrore.
Saremmo dovuti morire davvero, invece un nucleo, una nocciolina, un fagiolo, è rimasto intatto, salvo. E’ in questo fagiolo che come un gommone per il naufrago abbiamo dovuto metterci in salvo, stipando tutto quello che occorre per andare avanti, per continuare a credere che abbia un senso continuare con questa storia e non accannare, l’occorrente per resistere, non mollare, sfinirsi per non finire, per non decidere di lasciarsi cadere indietro nel vuoto mostrandovi il dito medio.
E’ cosi che ci siamo salvati, è per questo che siamo sopravvissuti, è per questo che ci aggiriamo nel mondo come mostri, è per questo che ci riconosciamo con gli altri mostri senza che voi sospettiate nulla.
Capito stronzetto, non parlo dei mostri che qualche artista t’ha disegnato sulla felpa, no, non i teschi su qualche tatuaggio da cattivone che te sei fatto, non il black metal, non il rap gangsta, no, chicco, non il diavolo rosso con le corna delle favole.
C’hai poco da fa er matto co quei du scudi de male che te sei vissuto, resti un umano, noi mostri di ghiaccio, mi basta toccarti con una mano e guardarti dentro per farti morire assiderato.
E’ per questo che non me devi cacà il cazzo, mai, come diceva mimadre.
Sono un fottuto mostro di ghiaccio, credo convenga che tu lo sappia, e mi sorrida sincero lo stesso, in cambio ad agosto posso tenette il campari in mano senza che te se squaji il ghiaccio nel bicchiere.

 

er Barcone

Uscimmo dalla metro A, co 6 scarpe e na ciavatta, brutti come la città mia, che saranno state? le otto de sera?

Uno de noi puzzava pure de sudore, manomale che almeno parlava con accento milanese.

“Uè Milaaaaaaaano!”

Entramo dentro starbergo a dieci mila stelle, che manco la via lattea, con tanto de usciere co tanto de cappello da usciere che ce fa: “vi posso aiutare signori?”

Signori? Ma ndo? li vedi solo te, cmq, stasera me vojo fidà! Vada pe “Signori!”

“stavamo cercando il ristorante”

Dice “a destra della hall, superate un archetto, trovate l’ascensore, ottavo piano”.

Prima de salì, mentre che aspettamo l’ascensore quello che puzza se cambia la majetta rimanendo a petto nudo pe un attimo, e lo fa senza mette un palo a controllà che non arivasse nessuno…

vabè, è stato detto, è de Milano.

Quanno che ariva l’ascensore se aprono e le porte e vedo che il pavimento dell’ascensore era de parquet, che vojo dì, un po m’ha sorpreso ma manco faccio in tempo a dì “ anvedi il parquet nell’ascensore” con espressione sopresa che lui, lei, ‘nsomma l’ascensore, se ferma, e se apre, e davanti a me, davanti a noi, porcamadonna!

A destra il Quirinale, davanti il Gianicolo, San Pietro tutto illuminato che se poteva quasi toccà co na mano, a sinistra il Pincio, sotto via del Tritone che correva giù fino a via del Corso..

Il quel preciso secondo tutti e tre amo smesso de respirà, de parlà, de fa le cose che se fanno normalmente quanno che le emozioni so normali.

Erano le otto, e alle otto de sera a Maggio a Roma sta quasi pe fa buio, ma non è anocora buio, è quello che chiamano tramonto e vi assicuro: porcoddio.

Se sedemo su sto tavolino su sto barcone co mammma Roma che pare che finalmente ce degni de no sguardo, poi, una serie di camerieri sommelier e cazzi vari ce portano le mejo cose da magnà e beve che esistono come che fosse na cosa normale essere speciali.

Insomma pe falla breve alla fine de sta giostra il conto sarà cinquecento euro, su sto cazzo de terrazzo, la metà del mio stipendio in 2 ore, altro che barcone.

Sul barcone te ce affacci te che non conti un cazzo, dal barcone ce affogano i migranti che contano la metà della metà di un cazzo, donne omini e bambini, senza distinzione, gente che non conta un cazzo, che se magna la merda e sempre se la magnerà, perché semo 7 miliardi di infami messi inpilati su una piramide e tutti non centramo su sto terrazzo da cinquecento euro, poesse grosso quanto te pare, tutti non ce capemo, ce capeno solo i ricchi.

Perché i ricchi c’hanno tutto, le cose più bone, le cose più belle, e all’antri je lasciano l’ethernit ed il neomelodico.

Ma pe na sera ve semo venuti a disturbà, a strillà “porcoddio che bomba” su sto terazzo dove chi parla sussura elegante, e guarda il mondo dall’ottavo piano, dove sotto è tutto piccolo.

Perché ce sta un a differenza tra un barcone ed un terrazzo. Tutte e due c’hanno l’affaccio, ma da uno s’affaccia un ricco, dall’altro ce affoga un poveraccio.

E poi ho pure capito che l’acqua calla fa impressione ogni volta che la scopri, avoja a dì.

Discovery Channel – I mancamenti-

Sono due. I mancamenti quando svieni, i mancamenti perché vieni.
No, sono tre. I mancamenti perché fumi, perché bevi, perché nun magni, perché ci hai la febbre.
Quindi i mancamenti sono, sarebbero sei, o forse sette, sono andato a cercare su wikipedia e non ho trovato risposta.
Cosicchè li ho dovuti contare da solo. E non dirò che contare può indurre un mancamento, per fare effetto.
No, abbiamo appurato che scrivere semplice è più difficile e fare il contrario è regalato come me.
E non solo, abbiamo appurato che ci sono svariati i tipi di mancamento, ognuno con la sua eziologia, volevo dire eziologia da un vita. Senza saperne il significato. Tutti dovrebbero avere delle parole in un archivio, che chiameremo “paroloni”, da usare a cazzo quando si pensa sia l’occasione giusta, rigorosamente senza averne mai saputo il significato, impari presto l’importanza che dire una cazzata al momento giusto piace, porta consenso.
I mancamenti sono un moto ondoso, non sono una retta dall’alto in basso, no, sono un circolo vizioso.
I mancamenti sono un vuoto daria, se non ti sei allacciato le cinture c’è il rischio de rimanacce stecchiti.
Sbatti la capoccia dove stanno le valige, i bagagli a mano, te se apre, te devi mette i punti di sospensione. Il il sangue è scuro che pare de quarcunaltro perchè il tuo te lo ricardavi più chiaro, nelle sbucciature sul ginocchio, ma alla peggio te se spezzal’osso del collo e ce rimani secco. Come un fesso. Immagina di tutti i modi in cui morire la posizione in classifica di morire in questo modo.
Pensa la tristezza. Una cosa assurda. Eppure..
Eppure, è una cosa che capita tutti i giorni e i giornali non lo dicono per non diffondere il panico. Perché non si deve sapere che basta così poco, un cielo, un volo, un mancamento.
Non lo dicono, lo tengono nascosto con un sistema complicato di negazioni, omissioni, falsificazioni, ma ogni giorno la gente muore nel mondo per i mancamenti.
Quando meno te lo aspetti, sei in auto, un periodo di merda, ti attraversa il dubbio, hai sbagliato dubbio e non tiene la rete che te sei fatto, quel batuffolo de fregnacce che te racconti pe mette in asse la spina dorsale, pe inizià e finì le giornate.
Sei in macchina e aspetti al semaforo, un lunedì qualsiasi di un mese invernale di un anno ennesimo di una vita abbastaza lunga per cui non sia più indicativo sapere con precisione. Un immagine, un volto, un ricordo sfumato come le paranoie, nitido come un emozione da cui scappavi e che adesso ti vince al sedile e ti piega, soverchia, come un singhiozzo.
E’ il mancamento. E’ ritornato il mancamento, ch mancava e che mo aritorna e tu chai il mancamento.
Se no te sei allacciato il cinturone, saldo con la pistola penzolante, la mano calda che la impugna svelta, sei spacciato. Te se fanno.
Se non ce stai, se non sei presente a te stesso, se te sei boicottato, la rete si spezza, l’onda ti travolge portndoti nel fondo, l’acqua te se infila nelle narici, in bocca, affoghi, cerchi l’aria, cerchi la luce verso cui andare per risalire e respirare. Ti servirebbero le gambe per spingere, le braccia per tirare, il fiato, ma non ce l’ìhai.
Questo succede, tutti i giorni in ogni posto del mondo la gente se spezza l’osso del collo per un mancamneto, ma non lo dicono, lo tengono nascosto e te li dai in faccia i brevetti presi in piscina.
Avevo ragione io papà, tanto valeva annà a giocà a pallone.

faccia a faccia

..Nte so bastati gli schiaffi che hai preso, no.
Te sei fatto cresce la barba come un cojone, che cè? Volevi nasconne la riga in mezzo, eh? ..aa coso, “come soffro”.
Motaccitua sta faccia da culo.
Ridi ridi che mamma ha fatto i gnocchi.
Menomale che tu cugino te riconoscerebbe pure in capo al monno. Avoja a cappuccetti ed occhiali da sole.
Quanto sei cojone?
Faccia da cazzo, ne omo ne ragazzo, mo te ne canto tante che te faccio mette a piagne, aa coccodrillo.
Cosi poi vedemo che fine fa quel sorrissetto.
Ah, mo non te piace eh, nun voi senti eh? Chai paura eh. E fai bene. Lo sai che te sveleno.
Cretino.
Chiudi quella bocca che te ce piove dentro.
Te sei messo l’orecchino pe fa rosica tu padre e quer cojone ha pure rosicato.
Tale padre tale fijo, mo tiettelo stretto quell’orecchino da scemo, me raccomanno, ariconsolate co nantro racconto.
Se come no, te saluto, le solite cazzate che parli, che dici, co quella boccaccia piena de denti, lavateli piuttosto.
lo sai le pizze che te davo se eri mi fijo?
Dici bene, menomale che tu cugino se guarda bene da fa certe cazzate.
Se Se, se non ce metto na pezza io ogni volta su quella faccia, sai che fine facevi?
Dici de no? che stavi mejo?
Che fai te ribelli? Te ringalluzzisci? Risponni? Quella sfacciataggine te la faccio rimpone, hai capito pupè?
Quanno stai sola co tu cugino allo specchio, chai poco da fa er gallo, che non te viè a aiutà nessuno.
Hai capito bene? Me fa specie che te lo devo spiegà ogni volta, e ogni volta fai le rughe, quell’espessione contrita, ma se vede che dietro l’occhi capisci poco, non te ce passa la corrente.
Altro che svejo de comprendonio, come è che diceva quella professoressa a scola?
Quella non capiva un cazzo, per quello te voleva bene, l’hai capita sta cosa almeno?
Niente, me guarda e non favella, sconcertata, a sto punto de sta recita fa quella che se scandalizza de tanta cattiveria.
E che sara mai in confronto a quella che trovi fori, io almeno te meno io e nte faccio menà da nessun altro.
Vai sul sicuro con me, quanno che la farai grossa nantra vorta te verrò a fa compagnia e te parerò il culo, ce lo sai bene.
Per questo quella faccia è robba mia, hai capit0? ricordatelo sempre.

ungula rasa

Questa è la storia delle unghie del piede.
Una storia dura, una storia di lotta, una storia dal basso.
Una storia nostalgica fatta di dimenticanza, di incuria, di degrado.
Una storia incazzata nera, pista come dopo un pestone, come dopo un carcio allo spigolo dello stipide, una storia di bestemmie, di lacrime fredde.
E’ una storia vittinma di sessismo, di discriminazione a buffo, una storia di mancata integrazione.
Una storia di figlie di una madonna minore.
Quelle della mano stringono mano, incontrano, si mostrano, si ricostruiscono, luccicano nelle loro mille fogge e possibiltà, accarezzano, si succhiano durante la scena di sesso, scaccolano, indicano, imputano, giudicano!
Quelle di sotto no, niente di tutto questo, succubi  stanno mute e zitte,  sotto. Crescono o non crescono non conta, crescono dritte crescono storte a chi importa, nessuno le guarda,  nesusno le conta, nessuno se ne ricorda se non prima del primo giorno di mare stagionale, o della prossima partita di calcetto.
Sempre se, perché manco è detto.
E allora peggio me sento, perché allora saranno gli sguardi schifati dei passanti il premio, l’ umiliazioni della marginalità che non diventa manco discorso comune, qualunque,  ma silenzio, omertà, ipocrisia, mistificazione.
Oppure saranno calzini bucati sporchi di sangue, scarpini gonfi e palloni sgonfi, penzolanti, sopra il dito medio.
Una storia di reclusione, di punizione, di scarpe di ogni foggia e forma a deriderle per tutto il viaggio, passo dopo passo.
Nessuna solidarietà da parte di nessun altro,  nessuna possibiltà di scampo, un solo destino,  nessuna gloria, nessun raggio di sole,  nessuna droga,  solo sacrificio e dolore, rancore, odio, desiderio di efferata vendetta.
Tutta la loro vita spesa nell’umile attesa di un infradito che non arriverà mai, se non come l’ennesima illusione temporanea, l’ennesima beffa, come due mesi di libertà tra 100 anni di galera.

panegirico

Ce sta una via che fa tutto un giro costeggiando la caffarella e che poi incontra verso la fine, prima di immettersi sull’appia nuova, sulla sinistra, una vietta.

Sta stradina in teoria avrebbe la precedenza nel congiungersi a vu che con la via che fa tutto il giro costeggiando la Caffarella, la segnaletica è chiara, ma poi nella pratica da quella vietta non ci viene mai nessuno, da quall’altra invece macchine su macchine per tutto il giorno.

Essi perché è una via come dire, obbligata, all’interno di tutto un processo empirico-cognitivo che chiameremo drittata, quella costruzione mentale per cui per sfuggire dal traffico si adottino delle strategie difensive, di evitamento dei veri gorghi , che si tramandano da generazioni in generazioni, ogni volta segrete di quartiere in quartiere, le famose dritte.

Percorsi alternativi, che poi le conoscono tutti ma è piacevole cullare l’illusione che invece sia un mistero per pochi eletti, una linea di demracazione netta tra de chi ce lo sa e di chi no, un privilegio spiccio insomma, bigiotteria emotiva che da ste parti va na cifra.

Insomma da sta vietta, dicevamo, non ce viè mai nessuno, è quasi un viottolo se non fosse che il viottolo è tale se c’è il brecciolino per terra e invece quello è asfaltato.

E quindi è automatico che chi arriva dalla via che fa tutto un giro etc etc non badi al segnale dare precedenza e sfrecci incurante verso l’arrivo della dritta, che sarebbe appunto via appia.

Tutti lo fanno, grandi e piccoli, uomini e donne, vecchi e bambini, perché è cosi da sempre. Ho fatto quella via da tutta la vita seduto in in ogni sedile per ogni fase delle vita per età e rango carraio, è sempre stato cosi, e non è mai successo niente.

Non voglio pensare a che rosicata fa il cid metti il caso disgraziatamente  quel giorno sbuca na macchina dalla vietta. 

Ma soprattutto chi è quello sfigato.

 

Ammazza che stronzo.

Ieri me so sentito davvero no stronzo. No spè ricomincio: pure ieri me so sentito no stronzo ma un po’ de più del solito. Perché vieni a sapè le cose pè ultimo e stavolta è solo colpa tua. E quindi mettite a core, mettice na pezza, va a saluta n’amico che te sta a core pè davvero, che senti vicino come un fratello, che se ne va da sto paese infame per motivi che mò nun sto a spiegà. De certo perché costretto.

E allora te senti no stronzo perché infondo m’aveva cercato st’ultimo mesetto e mezzo e io come faccio da un po’ de tempo a questa parte un po’ con tutti, non ho risposto al telefono. Tanto tra te e te, creandoti er solito alibi, te dici “vabbè dai domani lo richiamo. mò settimana prossima lo invito a cena”. E invece er tempo passa e stupidamente nun te accorgi che se te hai scelto de rimane fermo, de defilatte, mica significa che pure tutte le persone intorno a te stanno ferme. Magari ad aspettatte, vè? E allora te senti pure un cojone oltre che no stronzo.

D’altronde è un problema il fatto che stamo sempre concentrati su noi stessi. Che non abbiamo orecchie se non per le nostre sofferenze che diventano sempre più insormontabili mentre quelle degli altri risibili. Semo convinti de avecce er karma contro. Che er destino ciabbia preso de punta e invece.. E invece ncazzo. Basterebbe ogni tanto distoglie lo sguardo dallo specchio ndo stamo a mirasse tutto er giorno. A leccasse le ferite più o meno profonde. A pensà che de solitudine nun se more ma è mejo nun esse soli. E’ na brutta bestia la solitudine.

Ecco ora sto a divagà quando il punto era nantro. Me so sentito no stronzo ed era un po’ de tempo che nun me ce sentivo così. Così stronzo intendo eh. Perché allora devi fa le cose de corsa, sbrigatte a portà quell’abbraccio, quel saluto, che infondo è solo un ciao ma è anche come ristabilì quer contatto, quer legame, che ogni tanto va controllato, riannodato, va soprattutto curato.

Del resto i rapporti, d’amicizia, d’amore, quello che ce pare, nun so mica cactus che basta daje un po’ d’acqua ogni tanto e quelli campano. Magara vè? Eh no i rapporti vanno curati, sistemati, spesso vanno coccolati come fossero pupi. Perché n’amicizia è pure l’unico spazio in cui, all’età der cazzo nostra, potemo ancora permettese de regredì, de esse infantili e de esse trattati da regazzini ma con affetto: na carezza, na pizza, nantra carezza. E’ er circolo della vita del resto. Anzi er circo della vita.

Però te rimane l’amarezza. L’amarezza de nun avè capito che cazzo stava succedendo e de esse stato davero troppo troppo cojone. E per cojone intendo ottusamente concentrato su de me, come troppo spesso ormai.

Ah sì, sappiate che ancora na volta so riuscito a mette na pezza. Merito de chi me accoglie e nun serba rancore per il fatto che ogni tanto me do secco, sparisco. D’altronde a parole io so na cifra bravo ma è nei fatti che sistematicamente so no stronzo. Ed è brutto. Ciao brò, alla prossima.