Laura

Posted by opinionista on Marzo 10, 2011

Laura stava percorrendo quella strada come ogni mattina, alle 6.45, più o meno, e con faccia stanca. In quella stagione era difficile incontrare lo sguardo dei passanti. Per diffidenza, perché ognuno era concentrato a mantenere il passo, con lo sguardo basso, e perché i cappotti ed i cappucci riparavano dal freddo.
Nel mentre, sulla destra sorgeva un alba timida e una scia di luce rossastra carezzava i binari rifflettondosi, lei pensava sempre la stessa cosa. Come era potuta finire così. Come era potuta finire così in basso. Cosa la spingeva ad odiarsi a tal punto da non meritarsi un briciolo di soddisfazione, di serenità, di piacere.
E Le scarpe? Ne possedeva almeno una dozzina di paia. Le guardò e si convinse che quelle che indossava quella mattina, erano le sua preferite. Benchè le più vecchie e inadeguate ad un luogo di lavoro.
Scartò a sinistra, improvvisamente, cercando di schivare l’ennisimo dubbio. Che senso poteva avere questo modo di esistere, il suo.
Amava quelle scarpe benchè inadeguate? O perché inadeguate?
Il cielo diviso in due tra luci ed ombre lo sentiva carcare gravido sulle spalle, le sue, quella mattina con particolare devozione.
Le dita le cominciarono a ticchettare nervosamente all’interno delle tasche dai pantaloni. Gesto consueto all’uscita del metrò.
Avrebbe dovuto completare la discesa e poi voltare a destra, nel sottopasso dei binari, per poi risalire delle scale e sbucare, finalmente, sul suo binario, ad aspettare il suo treno. Laura era una pendolare, e la vita dei pendolari, più di quella degli altri è segnata profondamente dalle rughe dell’abitudine, dai solchi della ripetizione, milioni di piccoli dettagli che ne segnano la strada, il percorso.
A quel punto si produsse nella prima scommessa della giornata. Coerentemente di tenore scilabo. Trovare o meno uno di quei piccoli quotidiani gratuiti in uno degli appositi piccoli cestini, così da leggerlo e distrarsi per quei 5 minuti d’attesa e d’addiaccio.
“Niente da fare anche oggi”. Salvo eccezioni non lo trovava mai. Era troppo presto anche per loro.
Non li trovava mai, cosicchè questa presunta scommessa era diventata un abitudine anche essa. Forse, pensò, all’ingresso della piccola stazione avrebbe trovato il personaggio dal fratino fluorescente intento a regalarli, ma andare lì avrebbe voluto dire deviare, allungare il tragitto, con il rischio, sempre in agguato, di perdere l’unico treno che non aveva perso in vita sua, quello delle 7e09 del mattino.
L’aria gelata le sconsigliò di tognliere le mani dalle tasche del cappotto. Le lascio ben serrate dentro. In quel modo Poteva sentire il sollievo del calore delle gambe e quello delle mani scambiarsi vicendevolmente quell’effluvio benefico di tepore. Portava con sé, nella borsa, un libro, ma, pensò, l’avrebbe letto una volta salita e occupato il suo posto nel treno. Ora Faceva troppo freddo.
Nell’attesa occupo un posto su una delle panchine di ferro lungo la banchina, era ferro ghiacciatoe sedendocisi le si gelò il culo. Nascose il collo nelle spalle tentando almeno di non prestare il fianco all’umidità, che subdola, cercava di insinuarsi tra le pieghe del suo abbigliamento multistrato..
Una serie di gesti meccanici l’avevano portata sin lì ed altri l’avrebbero accompagnata fino al lavoro, in ufficio. Poi, di nuovo, altri ancora l’avrebbero riportata a casa, nel pomeriggio.
Quella serie ripetuta di gesti soliti erano diventati la sua armatura. Il segno del suo sabotaggio. La qualità dell’ irrudicibile rigidità delle sue giornate.
Odiava i suoi colleghi uno ad uno. Li detestava. Ne detestava le parole pronunciate e quelle che avrebbero pronunciato fra poco, e l’indomani ancora. Cercava di scansarli, in ogni modo, ma questo incrementava paradossalmente la curiosità che destava loro.
Un paradosso che le stava insegnando quale fosse il sapore del potere, e perché le persone desiderassero averlo o esserne schiacciate.
Li trattava male, in maniera scostante, con quella punta di disgusto e superiorità che non mancava mai di comunicare loro.
Eppure loro continuavano ad inseguirla. A dimostrare con fervente ostinazione la misura della loro idiozia, della loro pochezza umana.
Inoltre, sarebbe stato opportuno che le loro bocche tacecessero. Tacere nel tentativo vano di nascondere al mondo la loro piccolezza. Ma loro, quelle stupide teste di legno, tutto facevano, tranne quello, tacere. Anzi, Parlavano di qualsiasi cosa, ed a qualsiasi costo. Nessun timore di dire ciò che pensavano, benchè ciò che pensavano, fosse un accozzaglia di tuttologia impertininte, grossolana e mancipata.
Il treno giunse a destinazione in orario. Non avrebbe fatto alcun ritardo. Le pagine del romanzo che aveva letto in quella mezzora di tepore l’aveva distratta, affrancandola per quel tempo dalle sue tristezze. Una pagina l’aveva emozionata, scritta in maniera magistrale, una pagina, pensò, da incorniciare e da far leggere ai ragazzi nelle scuole.
Il treno si fermò. Suo malgrado dovette chiudere il libro e scambiarlo con il tesserino, il badge, da strisciare nell’apposita macchinetta segna tempo. Ma il peggio era passato. La sveglia, il freddo, la metro, il treno, ognuna di queste terribili esperienze erano oramai alle spalle, andate. Il resto della mattinata, seppur inquietante, sarebbe stata in confronto una passegiata di salute.
Scese le scale del vagone, le porte del treno si aprirono e di nuovo un aria ghiacciata la svegliò bruscamente dal calore dei riscaldamenti trenitalia. Incarcò il collo tra le spalle, diede un occhiata all’orologio, poi, risoluta e barcollante mosse i primi passi svelti in dierzione della macchina segna tempo. Traguardo ultimo del suo viaggio.
All’improvviso, la sequela rutinaria dei fatti quotidiani si ruppe, immettendo una variabile. Una donna la stava fissando insistentemente.
Appena le fù chiaro le venne spontaneo distogliere il suo da quello sguardo così intenso. Non era il solito modo con cui di sovente veniva guardata. Il solito sguardo di eloquente ammiccamento, o peggio di volgare complimento taciuto.
No, c’era qualcosa di nuovo questa volta, ma non riusciva a capire cosa, non riusciva a decifrare quale fosse il messaggio che l’oscuro estraneo stva cercando di recapitarle.
Trattenne il respiro e si voltò lentamente per guardare di nuovo. La ritrovò lì, immobile, come prima, elegante, austera, magnetica, intenta a fissarla, come alcuni attimi prima.
Laura ora intimorita cedette alla tentazione di allungare il passo, svelta.
Cosa la stava spaventando? Quell’intrusione nel suo privato o non riuscire a capire quale ne fosse il fine ultimo? Suppur le fosse capitato un milione di volte di essere fissata da occhi estranei, questa volta stava sentendo una difficoltà diversa. Non era oltragio, era qualcos’altro, sentiva di essere nuda, scoperta, vulnerabile e senza controllo.
Allontanandosi pian piano sentì il timore sciogliersi lasciandola scivolare in un sottile senso di autocompiacimento. Dopotutto era piacevole essere il centro di attenzioni così intense e misurate.
L’eccitazione, l’adrenalina che timidamente prese a scorrere nelle sue stanche membra di impiegata, la spinse a desiderarne ancora, a desiderarne avida un altro sorso.
Per dare seguito ai suoi desideri si sarebbe dovuta, a questo punto però, girare completamente, svelando quel piacere di cui invece non era pronta a riconoscere l’esistenza neanche a se stessa. Se ne fregò, e lo fece ugualmente, forzandosi ai limiti della sfida.
Lei Era ancora lì, impassibile, che la fissava. Quello sguardo non tradiva nessun desiderio, nessun richiamo altro che non fosse il presente, un presente che dichiarasse: Io Ti vedo.
Era tempo che aspettava di essere vista, da qualcuno, ed ora che le stava accadendo sapeva di dover scappare. Sapeva benissimo che non se lo sarebbe concesso. Sapeva che i suoi alibi razionali avrebbero avuto la meglio, ancora una volta. Sapeva che sarebbe voluta tornare indietro e parlarele, ma che non l’avrebbe fatto. Era troppo per lei. Avrebbe chiesto troppo a se stessa. Avrebbe messo in pericolo la sua stessa intimità, una intimità gelosa che le imponeva di tenere fede ai propri soliloqui, alla propria autoreferenzialità. Non sapeva quando, ma ad un certo mometo della sua vita, aveva deciso che quel momento della sua giornata l’avrebbe vissuto così, sempre uguale, ogni giorno, sempre. E non ammetteva sorprese, deroghe di sorta a questa regola. Avrebbe afforntato con coraggio ed una buona dose di rimozione il lavoro di rendere banale anche la specialità di quest’incontro se ce ne fosse stato bisogno. Non era difficile, dopotutto bastava solo proseguire per la propria strada, succedere un passo a quello precedente, e non voltarsi indietro.
Il sibilo meccanico della macchina segna tempo le indicò che la strisciata era andata a buon fine. Poi come se nulla fosse si diresse verso l’ufficio dove come ogni giorno feriale si dirigiva, e da dove, comodamente seduta davanti al suo pc, avrebbe ripreso a maledire il mondo e se stessa.
Un mondo e le sue regole asfittiche che traducono la vita di ognuno in un lento morire, niente più di questo, e lei non ci poteva fare niente..

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