Omaggio al Quadraro. (da Petrolio, P.Pasolini)
Posted by opinionista on Novembre 19, 2010
Malgrado questo finale quasi pirotecnico, la Visione non doveva finire così. C’era evidentemente in essa qualcosa di residuo che si doveva ancora esprimere, anche se, come vedremo alquanto ambiguamente.
La mia solita onestà mi costringe ad avevrtire il lettore-eludendo le regoledell’ambiguità, cui dovrei,a rigore, attenermi- che tale residuo della visione ha valore anche metalinguistico: il suo significato vale per il “Mysterion”, nel preciso momento in cui viene rappresentato, ma vale anche sul piano generale delle intenzioni dell’autore (del resto non meno ambiguamente che nel racconto)
Quando Carlo prese timidamente congedo da coloro che chiacchieravano sotto gli archi del colosseo ( i quali non si accorsero nemmeno di lui e di quel timido saluto che egli azzardò andandosene), la notte era già alta. Sembrava ancora pieno inverno, benchè il vento che soffiava non fosse tramontana, ma un umido scirocco. Tutto era deserto. Il vento pareva aver spazzato via non solo le cartacce o le inimmaginabili immondizie raccolte seull’asfalto-c’erra addirittura della paglia- ma anche gli uomini e i loro setssi fantasmi.
Ad ogni modo un tram passava ancora, stridente, luminoso e completamente vuoto. Carlo lo rincorse e lo raggiunse alla fermata davanti alle saracinoesche abbassate di due o tre bar e di un edicola. Fece appena in tempo ad osservare che dall’altra parte del colosseo, erano seduti sulla stecconata con cui era vietato l’ingresso agli archi, due o tre ragazzi. Ma erano ombre lontane, e re3starono ben presto indietro con le loro segrete intenzioni. Il tram portò Carlo alla stazione, e qui egli attese a lungo un altro tram ch lo portasse al quartiere dove abitava, cioè il Tuscolano verso Cinecittà: e precisamente il Quadraro.
La sua casa era lontana dalla fermata del tram: così egli dovette fare un pezzo a piedi, per le strade deserte spazzate dal vento.
Il Quadraro era un vecchio quartiere povero, fatto tutto di casette costruite dai loro stessi propietari con le loro mani, oppure misere palazzine a due o tre piani. L’intonaco non c’era , o era vecchio, decrepito. Anche i marciapiedi era poco più che piste di terra lungo le case, separate da uno sconnesso listone di pietra dall’asfalto slabrato delle stradine.
Tra le case c’erano dei vuoti, disordinatamente riempiti da orticelli o ripostigli all’aperto, pieni di stecconate, tettoiette di bandone, e una quantityà di attrezzi abbondonati sul terriccio duro e maleodorante. Le vecchie imposte delle finistrelle erano tutte chiuse, come del resto i portoncini dei miseri anditi o le saracineshe dei negozietti. Solo l’illuminazione pubblica spandeva la sue kluce giallina.
La casa che Carlo aveva affittato, come abbiamo visto, era proprio una di quelle povere case semiabusive, in una strada parallela alla strada principale del Quadraro, che scorreva lungo una linea ferroviaria, oltre la quale si alzava la barriera dei vecchi muraglioni seicenteschi del Mandrione. Per raggiungere quella strada, cArlo doveva deviare per una viuzza, piena appunto di orticelli e piccoli depositi, la quale, a un certo momento si apriva ad uno slargo rotondeggiante, che aveva l’aria della piazzetta di un paese (lontano, punteggiati di luce smorte, giganteggiavano i nuovi palazzoni di Cinecittà). Fu appunto passando attraverso quello slargo, poco prima della sua casa- dove lo attendeva il lettuccio col materasso di crine e i poveri mobili di un interno peggio che operaio: luogo in cui era stato così meraviglioso fare l’amore – che a Carlo apparve – staccata – l’ultima scena della Visione.
Il vento cadde di colpo. Gemette lontano, in un rantolo accorato il fischio di un treno, e per qualche istante si senti piangere un neonato.
Le casette intorno, a un tratto parve come slabbrarsi e ammuffire: e sopra di loro il cielo fitto di stelle ma senza luna, parve divenire più presente, forte, luminoso; com’e nei deserti.
Al posto di quelle case, apparve un enorme Tabernacolo. Il piedistallo era di mattoni, anch’essi consumati dal tempo, come nei sogni: piccoli mattoni rossi di costruzioni rustiche: ma il Tabernacolo era di legno. Quattro alte colonne, molto agili, di legno tarlato e quasi fradicio, reggevano una tettoia, anch’essa molto rustica, ma al tempo stesso preziosa, come potrebbe essere la porta del cortile di una reggia orientale. I coppi – che si intravedevano sopra l’elegante architrave intagliata di piccole figure, e la grondaia di piombo – eranoneri, e anch’essi molto xxx dal tempo.
In questo Tabernacolo – le cui forme del resto erano assai imprecise e si sfacevano nel cielo scintillante – era contenuto un grande simulacro, di diversa materia: nefra o tumo(?). Le misure di tale simulacro non potevano dirsi gigantesche: tuttavia esso era granduioso: alto tre volte almeno un uomo di statura normale. Dire che rappresentasse una donna, sarebbeinesatto, benchè questa fosse la prima impressione. Si trattava infatti piuttosto di un mostro muliebre, consistente in due gambe piuttosto tozze, su cui era incastrata, al posto dell’inguine – tanto che il taglio della vulva coincideva col taglio del mento – una grossa testa di donna. I capelli erano acconciati come quelli delle contadine, ma nei giorni di festa: due cerchi (di metallo o di stoffa, non si poteva distinguere) li stringevano: per cui una parte incoronava la fronte, una parte formava una specie di crocchia in mezzo alla testa. Questo mostro muliebre, tuttavia, reggeva con la mano destra, un lungo bastone, della stessa altezza. E questo bastone era senza possibiltà di dubbio, un lungo nodoso membro virile.
Davanti a quell’enorme simulacro poroso di tumo scuro, che si confondeva col cielo retrostante carico di stelle, c’era una piccola folla, distratta o indiffirente: comunque seria e quesi costernata: si trattava ad ogni modo, come dire? Di una folla di trapassati, che oramai non avendo più alcun interesse o curiosità per qualsiasi cosa potesse apparirgli o succedergli in quell’angolo notturno e abbandonato del mondo attuale.
Il simulacro poggiava i piedi su una specie di alto gradino di nefro: e, sullo spaccato di tale gradino, c’era un iscrizione.
Carlo si avvicinò e lesse le seguenti parole:
“HO ERETTO QUESTA STATUA PER RIDERE”
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